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Tra bagnanti e ombrelloni Mentone fa finta di niente
Dal nostro inviato Massimo Calandri
MENTONE.
Cento passi più in là sembra tutta un’altra storia. Una piccola spiaggia tra gli scogli, alcune coppie che prendono il sole: una ragazza nuota e ride spaventata, il fidanzato s’è tuffato e la insegue. Sulla passeggiata c’è un’elegante signora anziana: è in difficoltà, il grande cappello di paglia sta per volarle via. Vento di libeccio: caldo, africano. Ma cento passi più in là del confine tra Italia e Francia, oltre quel muro di gendarmi e furgoni, anche l’aria soffia più leggera. Però non fidatevi. È solo un’impressione.
“Indesirables”, titola Nice- Matin, il quotidiano locale. Indesiderabili. Una grande foto della stazione di Ventimiglia, con la ressa dei migranti e la polizia. Nell’articolo, l’aggettivo “miserabili” è ripetuto più volte insieme alle parole: paura, tensione, illegale. C’è un’intervista ad Enrico Ioculano, il sindaco: lo descrivono come «un giovane playboy italiano con i rayban, stiloso, eletto dopo che un’inchiesta per mafia ha fatto piazza pulita dei politici». Invece il sindaco di Mentone è Jean-Claude Guibal, 74 anni e da 25 primo cittadino: ‘colonnello’ dell’Ump, ora i Repubblicani, la destra di Sarkozy. La moglie è la senatrice Colette Giudicelli, numero 2 della regione - Alpes-Maritimes - presieduta da Eric Ciotti, monsieur Sicurezza. Tutti Repubblicani. Del resto, nella ricca e conservatrice Riviera francese non potrebbe essere altrimenti. Mentone assomiglia a Santa Margherita Ligure: 30.000 abitanti, turismo medio- alto, strade pulite e limite di velocità a 30 all’ora, un bel museo dedicato a Cocteau, parecchie ville ma anche monolocali: i francesi del nord – e pure gli italiani – dopo la pensione hanno investito qui, clima mite e tranquillità. Guibal ieri ha chiesto al primo ministro Valls di «mantenere la frontiera ben chiusa e presidiata: non fosse altro che per far capire a chi pensa di emigrare che qui in Europa non avrà avvenire».
Dopo il confine, passando per Ponte San Ludovico e cioè la via a mare, il primo negozio è un panificio che fa anche bar: la titolare de “L’ami du pain” è una giovane donna bionda, Stephanie. Dice che le fa pena, vedere «i migranti trattati come cani, prigionieri di una legge che non c’è. E che vergogna, la gente che qui davanti s’abbronza facendo finta di niente». Ieri mattina è venuto da lei un signore, un italiano, ha comprato molti croissant: «Diceva che li avrebbe portati a quei ragazzi. Così gli abbiamo dato le nostre baguettes. Non è molto, ma è pur sempre qualcosa». In questi anni ne ha visti a centinaia, passare il confine a piedi – in silenzio, la testa bassa – e proseguire: «Nessuno mi ha mai dato problemi. Mentone è una città sicura. Però le cose sono cambiate da qualche mese: perché prima erano solo di passaggio, non si fermavano in Francia. Ora è diverso. Ora i francesi hanno paura».
Jean-Michel, farmacista alla Hanbury, proprio all’entrata di Mentone, sostiene d’essere un francese esemplare: «Niente destra o sinistra, non voto più. Ma lavoro duro, pago le tasse». E dice che no, i migranti non ci devono più venire in Francia. «Risalgono il paese e arrivano fino a Calais, sulla Manica. Nessun problema, quando andavano in Inghilterra. O in Olanda, Germania. Ma oggi non riescono a passare e dopo un po’ ce li ritroviamo da qualche parte, che lavorano in nero mentre i francesi sono disoccupati. Sanità, scuola, servizi: dobbiamo pagare anche per loro, ma i soldi non ci sono più ». Le Narval è il più storico bar di Mentone: fino a 20 anni gli italiani venivano qui a comprare sigarette ed alcolici. Adesso accade il contrario, sono i francesi che vanno al bar Conad, un chilometro più là, in Italia: i prezzi sono migliori. «Però gli italiani continuano ad essere ottimi clienti, perché qui si può giocare ai cavalli». Ma da qualche giorno dicono che non si vede nessuno: con il blocco alla frontiera, la gente non ha voglia di aspettare in coda. E alla vigilia della stagione estiva, quelli dell’ente del turismo fanno gli scongiuri.
Tra le coppie della spiaggia ce n’è anche una di Mondovì. Sono pensionati, hanno un monolocale a Mentone. Sono arrivati l’altro giorno in treno. «E come sempre, alla stazioncina di Garavan (la prima dopo il confine) è l’orrore: i poliziotti della Crs che salgono a bordo, gridano e trascinano giù quei poveri ragazzi. Non è giusto, non è umano. E poi da noi non c’è più posto, è il resto dell’Europa che se li deve prendere». Tornando indietro, verso Ventimiglia, sotto alcuni pini marittimi c’è un grosso cartello: “Mentone è felice di accogliervi”, è scritto in francese. Non fidatevi, è solo un’impressione.
Abitare le Alpi nel XXI secolo - Annibale Salsa
La “sportivizzazione” dello spazio montano e un certo ambientalismo fondamentalista, di matrice urbano-centrica, avevano trasformato le terre alte del Bel Paese in uno spazio di contraddizioni. Ma come si evince dalla pubblicazione di Dislivelli “Nuovi montanari. Abitare le alpi nel XXIesimo secolo”, oggi gli scenari stanno cambiando. E registriamo sbigottiti la nascita di “nuovi montanari”.
Il lascito di eredità intorno alla montagna, trasmessoci nella seconda metà del Novecento, è quello di una montagna spopolata, rifiutata, rimossa oppure retoricamente idealizzata. L’appuntamento con il boom economico del secondo dopoguerra ha coinciso con l’enfatizzazione della città, meglio se metropolitana, e con una rappresentazione bipolare delle terre alte alla stregua di una relazione schizoide. Da una parte c’è la montagna madre e matrigna del mondo dei vinti, vissuta dai montanari in qualità di iperluogo della sofferenza e di nonluogo delle opportunità vitali. L’ambivalenza fra nostalgia e negazione, infatti, ha attraversato gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso. Dall’altra parte la montagna dei cittadini ha generato un’altra forma di ambivalenza, altrettanto perniciosa. Le voglie di consumo e di divertissement hanno contribuito a trasformare alcuni territori in aree loisir, in “terreno di gioco”. Per certi aspetti questa visione sembra riecheggiare, seppur con accenti diversi, la rappresentazione delle Alpi diffusa dall’alpinista inglese Lesley Stephen in termini di “playground of Europe”. Ne è derivato un eccesso di “sportivizzazione” dello spazio montano, responsabile della costruzione delle sta- zioni sciistiche di terza generazione e degli insediamenti rivolti alla pratica dello ski total, svincolati volutamente da ogni legame con le comunità residenti. In questa espressione di assolutismo monoculturale, il concetto di “territorio” viene espropriato del suo vero significato socio-antropologico e viene assimilato riduttivamente a “terreno” di glisse. Il rovescio della medaglia di questa concezione è costituito dall’emergere prorompente di un certo ambientalismo fondamentalista, di matrice urbano-centrica, polarizzato sulla contrapposizione uomo-ambiente. Gli anni Sessanta e Settanta hanno posto problemi fondamentali di natura ecologica ren- dendo imprescindibile la necessità di affrontare il tema dei limiti dello sviluppo.
Il dissesto urbanistico collegato a una montagna colonizzata da stilemi architettonici kitsch e da stili di vita conseguenti hanno violato, nella loro irrefrenabile orgia consumistica, quella nozione di limite di cui la montagna costituisce un perenne richiamo, fisico e morale, nonostante le seduzioni della società del no limits. Non poteva, quindi, non formarsi una coscienza critica al riguardo. Tuttavia, l’atteggiamento che verrà assunto di fronte alle nuove emergenze ambientali sembra individuare, nella presenza sempre più residuale delle popolazioni alpine, un ostacolo alla libera manifestazione della “Natura”. La filosofia gestionale dei Parchi, soprattutto di quelli nazionali, era orientata da visioni prettamente conservazionistiche dove il montanaro veniva percepito quasi alla stregua di un intruso. Ricordo, in proposito, le vecchie polemiche all’interno dei Parchi fra abitanti, amministratori e protezionisti. In questa ottica si veniva a configurare una sorta di falsa coscienza. A una “cultura del sì” indiscriminato nei confronti di ogni forma di infrastrutturazione deturpante si contrapponeva una “cultura del no”, altrettanto irriducibile, sul fronte proibizionista. L’idea di paesaggio quale spazio di relazione / interazione fra montanari e ambienti naturali era del tutto disattesa.
Quei pochi residenti sopravvissuti dovevano fare i conti con burocrazie soffocanti e scoraggianti nei confronti delle tradizionali attività agro-silvo-pastorali. L’evolversi, nel frattempo, della filosofia della tutela ambientale da posizioni di tutela passiva a forme di tutela attiva, anche alla luce di una concezione dell’ambiente declinata in chiave di complessità, lasciava spazi sempre più ampi alla ricezione matura dell’idea di paesaggio. Non più dimensione contemplativa ed estetizzante di matrice idealistica, fondamento dei primi atti legislativi nell’Italia degli anni Trenta (Legge Bottai, 1939) e porto rassicurante per “anime belle” di hegeliana memoria. Piuttosto, si fa strada la nuova consapevolezza del ruolo ineludibile degli uomini della montagna intesi come “costruttori di paesaggio”, “faiseurs de montagne” nel senso di Bernard Debarbieux. La compresenza delle filosofie contrapposte del “tutto permesso” e del “tutto vietato” ha trasformato il Bel Paese in uno spazio di contraddizioni. La ricerca ossessiva della velocità a tutti i costi ha trasformato la montagna in uno stadio, sciistico e alpinistico, facendo implodere la relazione spazio-tempo e perdere di vista il valore di un mondo profondamente segnato dalla natura e dalla cultura. Questi due fattori, anziché essere posti in una relazione di intreccio e di reciproca contaminazione, sono stati rappresentati in termini oppositivi.
Oggi registriamo sbigottiti la nascita di “nuovi montanari”. Chi ricorda gli anni del dopoguerra, caratterizzati dall’anatema nei confronti della montagna, prova grande sorpresa nel cogliere segni di interesse per la vita sulle terre alte. Che si tratti del fenomeno dei “ritornanti” o di chi cerca collocazioni di vivibilità in un mondo sempre più invivibile per ragioni riconducibili all’affermarsi di nuovi bisogni (“voglia di comunità” alla Zygmunt Bauman?), sta di fatto che siamo in presenza di fatti del tutto imprevisti. Quando la montagna sembrava dover oscillare fra sfruttamento industriale, luddismo consumistico e mitizzazione del selvatico, non si pensava vi fosse ancora spazio per azioni insediative. Oggi gli scenari stanno cambiando. Tuttavia ci si deve chiedere se vi sia ancora posto per l’uomo montanaro, al di fuori degli stereotipi folcloristici, proprio nel momento in cui egli si fa anche pastore transumante o stanziale e deve fare i conti con l’aumento dei grandi predatori. L’idea della montagna quale spazio di sola natura “incontaminata” e deantropizzata contrasta, infatti, con la storia del paesaggio alpino e con le nuove domande di montanità. Si impone, quindi, una nuova governance capace di far tesoro degli errori del passato e di accompagnare le domande del presente allo scopo di dare un avvenire umanizzato ed ecosostenibile alle nostre montagne.
Annibale Salsa
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Dislivelli
Ricerca e comunicazione sulla montagna
Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Torino il 21 aprile 2010. Direttore responsabile Maurizio Dematteis
di Aldo Bonomi
D’altro lato alla rappresentazione è sotteso uno stimolo affinché la politica e le politiche accompa- gnino con maggiore decisione queste tendenze in atto in modo spontaneo [...]
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I microcosmi alpini